Il mio docente di scrittura creativa, mi ha bonariamente rimproverato perché nell’ultimo racconto: “Per non dirti addio”, c’era molto poco di narrativa, ma in compenso, ha detto, c’era molta evocazione sentimentale. Mi ha suggerito: “rivedilo e scrivine in terza persona”. Ci ho provato. Non so con quale risultato, ma Vittoria, una ragazza che frequenta con me, lo ha letto al mio posto (non avevo gli ormai essenziali occhiali) e si è emozionata e… a volte può bastare.
La stanza era fredda e disadorna. Un tendone giallo oro, divideva la camera ardente dalle persone che volevano portare l’estremo saluto. Occorreva spostare di lato quella cortina, per giungere davanti al morto. Il primo a varcare la soglia era stato suo padre, si appoggiò al muro con un fianco e con un movimento famigliare, portò la mano destra sul ginocchio della gamba d’appoggio, un gesto stanco e ripetuto. Il viso, in un perenne pianto senza più lacrime, versate tutte sul cuscino della camera del figlio. A mezza bocca disse: “tra qualche giorno la tua pelle si spezzerà ed io dovrò sopportare anche questo”. Sua madre, appena dietro, si mise a fianco del figlio e seguitò a carezzarlo e pettinarlo. Il suo sguardo era sconsolato, ma anche stillante della vita del figlio e nei suoi occhi, si leggevano le giornate incerte di nuvole e sole trascorse insieme. La sorella e il fratello più grandi erano in un angolo a sorreggere la nonna resa instabile dal dolore, tra singhiozzi e lamenti a voce alta. A metà mattino iniziò il movimento di giovani donne, che, piegate dalla sofferenza, si facevano forza e compagnia per andare a dire addio a quel ragazzo intrigante e appassionante, che le aveva amate e fatte sorridere. Poi fu la volta dei vicini di casa, di tutto il quartiere, che si strinsero attorno alla famiglia per condividere, almeno parzialmente, uno squarcio troppo grande per essere cucito da soli. E fu una vera invasione di gente umile, che portava con sé il calore delle cose semplici, quelle che si offrono senza chiedere nulla in cambio; un abbraccio lungo come una vita, una carezza lenta, un bacio sulla nuca, due mani che stringono le tue senza lasciarle andare mai. Nel silenzio, a tratti interrotto dal pianto, arrivarono gli amici, prima alla chetichella, individualmente, poi la massa della compagnia o quello che ne restava. Erano arrivati quelli che avevano diviso i giorni apicali e le disfatte terrene, quelli che lo avevano vissuto, respirato, accompagnato nel vento. Erano tutti intorno al feretro, quelli che avevano già gettato via la loro vita e quelli che lo avrebbero fatto di lì a breve, ma erano in quel luogo freddo per scaldarlo, per accudirlo, per amarlo. Infine arrivò l’ultimo amico, quello alto, proprio mentre gli inservienti, con fatica, si adoperavano per invitare la gente ad uscire da quello stanzone gelido. Chiese con garbo di potersi trattenere da solo con il “suo” amico dalle labbra viola. Lo accontentarono per qualche minuto, ma i signori di nero vestiti, avevano fretta e l’intruso andava gentilmente respinto. Finse di uscire, ma non lo fece. Rimase fino alla chiusura e qualcuno da fuori, lo vide che, con la testa piegata, seguiva fino alla fine le sembianze umane dell’amico perduto. Dopo la cerimonia, all’ uscita dal cimitero, nessuno aveva voglia di andarsene, ma la vita a poco li riprese, tornarono rapiti a vivere. Tutti andarono verso le loro case vuote, consapevoli d’aver perduto in giro qualcosa di importante. Solo uno tornò nel campetto dei giochi d’infanzia; aveva gli occhi gonfi, ma sorrideva tra le due porte, seduto sopra ad un pallone, si perse a guardare il cielo.