Amici sempre

Amicisemprefoto

Questa storia nasce tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 a Parma, nel popolare quartiere Giovanardi, al numero 85 di via Edoardo Jenner, nome del grande scienziato che ebbe l’illuminazione di scoprire il vaccino contro il vaiolo.   Ci dividevano quattro rampe di scale e dieci mesi uno dall’altro, ci univa la voglia di vedere e scoprire il mondo. Ognuno con i propri mezzi e la propria fantasia. Tutti figli di operai o al massimo impiegati o commercianti nel Bronx parmigiano. Giochi fatti e ore trascorse per lo più in strada, la nostra palestra di vita. La  timidezza e la ritrosia hanno spesso limitato il mio raggio d’azione, ma in quel quartiere, dove la perdizione della droga ha falcidiato un’intera generazione e l’80% dei miei amici d’infanzia mi guarda dal cielo, sono stati forse il mio esercito della salvezza. Marco invece no, è l’esuberanza materializzata, lui deve toccare con mano, occorre vivere appieno le emozioni, occorre calarsi fin dentro, anche dove c’è il buco nero per cercarvi una luce. I giochi fatti con il fango a costruirsi le radiotrasmittenti, il gerlo segando e limando pezzi di legno, la capanna edificata dove finiva la strada, e poi ore e ore a giocare a pallone. Poi l’età dell’adolescenza, io con il mio lavoro cominciato troppo presto e lo sport, che assieme alla famiglia mi hanno distratto e protetto dalla polvere bianca, quella maledetta. Lo sguardo lo incrociammo una sera d’estate nelle scale, era quello perso e volutamente basso, l’affetto era immutato, ma mi sembrava un’anguilla, era sfuggente e frettoloso. Una fretta che durò otto lunghi anni. Il suo primo buco, Marco se lo fece all’età di tredici anni, un brivido mi percorre lungo la schiena: è l’età di mia figlia oggi. Poi seguirono alti e bassi dovuti alla tossicodipendenza. Ma poi arrivò una ragazza, la donna della sua vita e noi tutti, assieme allo sforzo enorme della famiglia, lo accompagnammo nella sua scelta di entrare in comunità. Provvidenziale. Per otto mesi potevamo scriverci una lettera al mese e lui aveva il permesso di relazionare solamente con amicizie “positive” come venivano definite dallo staff. Purtroppo, positivo, una parola che ritorna, ma non sempre tiene fede al significato etimologico della parola. Diciotto mesi, quanto è durata la disintossicazione, quella fisica un mese, patendo le pene dell’inferno, il resto per trovare un equilibrio psicologico, che nella realtà lui non ha mai perso. La decisione di uscire da quel giro: la paura ormai vicina del carcere, l’amore per la sua donna e la famiglia e un pezzettino per me, almeno così mi piace pensare. Era la fine dei famosi anni ’80, l’edonismo e il consumismo avevano compiuto passi enormi nella nostra società, l’effimero era l’obiettivo principe. Ma noi dovevamo tornare invece alla vita e possibilmente farlo insieme. La nostra era un’amicizia nata nella polvere del campetto dietro casa,  si nutriva di polvere di stelle, fatta spesso di sguardi, di gesti ma anche di silenzi.  E  dalla polvere, quella  maledetta, si era affrancato con le sue forze. Mi tenne nascosto a lungo la sua malattia, non per paura che io mi allontanassi, ma per non farmi soffrire inutilmente. Lo vedevo dimagrire sotto ai miei occhi e certi drammi, erano i primi anni ’90, si conoscevano ormai bene purtroppo, ma il mio trasporto non mi consentiva di vedere la dura realtà. Di ritorno da una giornata trascorsa al mare in compagnia, fece in modo che io mi trovassi solo assieme a lui in casa sua. Ci appoggiammo sul davanzale e osservammo quei luoghi famigliari, dove nelle sere d’estate, ascoltando la musica delle cicale, giocavamo a nascondino tra l’erba medica. Mi disse: “vedi, io la vita l’ho vissuta ai 200 all’ora, ho amato, giocato, sperimentato e alla fine sono rinsavito grazie soprattutto a te, amico mio, ma la vita stessa mi ha presentato il conto, forse un po’ salato, ma accetto la sentenza”. Le gambe mi cedettero, le forze si affievolirono, l’unica cosa che riuscii a mettere in pratica fu l’aggrapparmi alle sue braccia ed emettere un flebile: e adesso? Adesso  disse lui, non fare il patetico e venire qui ogni giorno. Sono ammalato ma non invalido. Gli occhi rossi tradivano il dolore, ma ebbe una forza fuori dal comune. Misi tutte le energie che fui in grado di raccogliere e finimmo con l’abbracciarci a lungo. Era l’inizio di un calvario. Ma io tenni fede all’impegno, ci sentivamo con molta frequenza, ma c’erano giorni che non passavo né ci sentivamo, una vera violenza. Poi un giorno andammo a pescare in un laghetto di montagna, ci divertimmo profondamente, lui un pescatore provetto, io nemmeno della domenica, ma del lunedì. Lui i pesci li pescava, ma li lasciava immediatamente: il “ciapa e mola”. Alla sera per tornare alla macchina, dovevamo camminare a ritroso sui nostri passi del mattino, ma occorreva fare uno strappetto in salita che poche ore prima era discesa. Io con tutta l’attrezzatura da pesca, lui con solo la canna. Vedo che arranca e amorevolmente, ma pacatamente lo accompagno: dovevo fare così altrimenti si sarebbe “incazzato”. Ad un certo punto si gira con gli occhi lucidi e mi dice: “non ce la faccio”. Ed io dico cosa sono qui a fare? Appoggiai tutto l’armamentario e lo presi in groppa raccontandogli di quando da bambino mio padre faceva lo stesso con me. Ma io ho 26 anni mi disse ed io ne uno più di te, zitto e sappi che da oggi non ti lascerò più solo nemmeno un giorno. Ci liberammo del macigno della malattia e degli eventuali tabù. Un giorno mi chiese, dandomi quasi un ordine:” vai fuori con gli altri amici e amiche, io stasera esco solo con M.” “Ci mancherebbe!” pensai. Andai al cinema con altri amici e fidanzata. “Balla coi lupi”, il film. Si accendono le luci dell’intervallo, mi guardo in giro e vedo Marco e Lei, ampi gesti eloquenti di saluto. Ricomincia il film, scena finale: il capo indiano Sioux da un roccione saluta il protagonista del film, Kevin Kostner ufficiale dell’esercito americano yankee, arrestato per alto tradimento per essere passato dalla parte degli indiani. Scena ad alto contenuto emotivo. Dall’alto questo maestoso uomo indiano lancia strali verso l’esercito e urla all’amico americano: “lo sai che in qualunque strada ti troverai resteremo sempre amici? Sempre. Da qualsiasi parte ci troveremo. Resteremo sempre amici”. Eravamo nella parte alta della platea, mentre Marco e M. erano più vicini allo schermo. Inevitabilmente lo sguardo cadde là e nel medesimo tempo noto un po’ di trambusto, qualche lamento, un rimbrotto. Nella penombra vedo l’ormai esile figura di Marco in piedi,  con le spalle girate al film e rivolto nella nostra direzione, nella mia direzione. Un colpo al cuore. Mi alzo di scatto, qualcuno dietro di me mi rimprovera sul fatto che il film non sia ancora finito, ma non lo sento nemmeno. Gli occhi prima umidi, ora sono un fiume in piena. Gli amici chiedono, ma non sento nessuno, vedo solo Marco che  tributa il suo amore e la sua amicizia nei miei confronti. Cerco quasi di allungare le mani, ma è un movimento impercettibile, il pudore mi frena. Poi lascio ogni freno inibitore e urlo: “Sempre amici per sempre!” Parte un piccolo applauso irriverente, ma qualcuno intuisce qualcosa e rispetta silenziosamente se non altro le mie lacrime. Fuori dal cinema un lungo abbraccio. Per sempre. Ma una vera storia di amicizia non può finire senza un lascito, un testamento d’affetto. Amicizie trasversali hanno fatto in modo che Marco conoscesse prima di me una cara persona. Un giorno mi disse: “ho conosciuto un’amica di M., sensibile, intelligente e carina, sembra fatta apposta per te. “ Concluse con un: “Second mi l’at pies”. Mi conosceva? Quattro anni dopo quelle parole, sposai quella ragazza. Convolammo a giuste nozze a Viarolo, il suo paese, nella chiesa di San Giorgio. Mi ha dato due figli che adoro e sono profondamente innamorato di lei: è la mia vita. Marco mi lascerà solo davanti al davanzale della nostra infanzia il 1 maggio del 1994, festa dei lavoratori. Lo stesso giorno di Airton Senna e scherzo del destino, avevano tre grandi qualità in comune: il coraggio, l’intelligenza e la sensibilità. In quel letto di ospedale ho lasciato gran parte della mia giovinezza, della mia spensieratezza. Ho lasciato un amico vero, che non ha mai chiesto nulla, ma che non disdegnava la mia presenza ed io la sua. Beh, diciamola tutta, ho assaporato fino in fondo il gusto dell’amicizia, quella senza nessun secondo fine, quella che ti da tutto e non chiede nulla in cambio. Sono passati ormai quasi vent’anni, ma ci penso tutti i giorni, per pudore non ne parlo, ma lui è qui con me e ride vedendomi piangere. Quando sono in grande difficoltà abbraccio il mio Amore, che capisce tutto subito ed è un po’ abbracciare anche Marco. Le sue ultime parole? “Nico vieni vicino senti che bel rumore” Poi la sua mano che stringeva la mia si è allentata. Il medico ci ha spiegato che era entrato in una fase di pre-coma. Non avrebbe più sofferto. Spesso ritorno nei nostri luoghi al tramonto, quando, nelle giornate lunghe, i riflessi rossi si infrangono nella nostra aiuola e mi sembra ancora di vederlo costruirsi l’arco con le frecce, o palleggiare con in mano il suo bel panino con la nutella. Salgo le quattro rampe di scale, abbraccio i suoi genitori, respiro l’aria di quelle stanze, guardo le foto insieme e torno in pace con noi stessi.

Noi sempre amici. Sempre.

Il Partito Democratico, il mio partito

Viviamo una realtà difficile, diversa da quello che poteva essere  vent’anni fa. Oggi si è precari sul lavoro a 50 anni, assistiamo alla fuga all’estero delle nostre menti più eccelse.  Essere genitori nell’Italia odierna è oltremodo angosciante, ti attanaglia l’ansia per il futuro dei propri figli e allo stesso tempo non sai se sarai in grado di contribuire economicamente alla loro formazione. L’anziano attuale non ha più le certezze di un tempo, ovvero godersi in maniera dignitosa gli ultimi anni della propria esistenza. Molte sicurezze un tempo granitiche si sono dissolte. E’ cambiato il mondo. “Chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza” diceva Lorenzo il Magnifico. Ma per quelli come me che per telefonare utilizzavano il gettone nelle cabine telefoniche, districarsi nel mondo digitale non è semplice. E’ cambiato tutto, prendiamo atto. Sono cambiati anche i  partiti, un tempo grandi contenitori per veicolare le proposte, l’assenso e il dissenso. I partiti erano e vorrei rimanessero, gli enormi convogliatori di democrazia.  Nel passato hanno dato la possibilità, anche all’ultimo elemento della società, di poter dire la propria, o comunque di sentirsi rappresentato. Oggi forse qualcosa è cambiato. Troppi individui hanno utilizzato i partiti per costruirsi una bella carriera politica e professionale. L’epoca dei nani e ballerine ha fatto scuola. Il berlusconismo imperante, nato dalle ceneri di una partitocrazia sclerotizzata, con al centro la DC e il pentapartito, è finita a sua volta miseramente negli anni ’90 con mani pulite, dopo aver comunque garantito alle generazioni precedenti, una crescita e una ricchezza, mai conosciute prima. L’avvento di Berlusconi, l’ascesa, il ventennio e la parabola discendente, hanno coinciso non solo con un declino economico dovuto anche, ma non solo, da fattori contingenti, ma in modo molto più grave, con un’ emorragia di valori, con una perdita considerevole di rettitudine morale, dedizione e onestà. Da questo disfacimento culturale, enclavi più o meno estese, si sono incuneate anche a sinistra. Troppe persone si sono servite dei partiti di centrosinistra, in testa quello più rappresentativo, il Partito Democratico, sfruttandolo come fosse un autobus, facendosi transitare da una fermata ad un’ altra più conveniente, remunerativa e finanche con maggior visibilità. In alcuni casi è sembrato di assistere ad una maionese impazzita. Corpi estranei si sono mescolati, gli ingredienti erano sbagliati. Per arrivare ai giorni nostri, senza scendere nell’attualità, assistiamo a scene deprimenti. Non è sbraitando più forte o facendo apparentemente le vittime che si costruirà il futuro politico di un Paese. Una nuova classe dirigente la si definisce tale se è in grado di fornire un’attesa, di dare una risposta, una speranza. Al prossimo congresso del PD, ben vengano tanti candidati e non uno solo che ci rammentano tempi bui e scontati. Ma di rimando dovranno dimostrare di essere teste pensanti e portatori di un pensiero largo, di grande respiro. Non che una analisi abbia la durata di un tweet o di uno stato su facebook. Occorre ricominciare sul serio a pensare per le masse, con coraggio nella complessità, senza pensare alle convenienze politiche individuali, ma ragionando ogni giorno, ogni attimo, come se chi ci ha dato quel mandato, lo avessimo sempre davanti a noi per verificare la bontà dei nostri gesti. Le correnti forse sono fisiologiche, così come l’empatia o meno con alcuni individui piuttosto che altri, ma occorre una sintesi, altrimenti sembra una guerra tra galli nello stesso pollaio. Largo al merito, quello vero, siano esse persone giovani o più mature. Non ci si può riempire la bocca di bei concetti e alla prima occasione, mettersi sotto l’ala protettrice più conveniente. L’ho provato sulla mia pelle nelle scorse primarie nel dicembre 2012, per far scegliere ai cittadini i nostri rappresentanti da mandare in Parlamento. Nella competizione ho trovato parecchie resistenze, difficoltà, c’era poi chi voleva spazzare tutto per introdurre forze fresche e giovani, salvo poi quando si è fatta l’ora ha preferito porre il proprio endorsment verso lidi più sicuri, onde evitare figuracce. Ci sta tutto, non sono una mammoletta e non è detto che io fossi l’elemento ottimale, ma erano primarie aperte o no? Chiedevo solo di partire alla pari anche con i più strutturati, che non ci fossero corsie preferenziali, altrimenti si svilisce lo strumento delle primarie.  A differenza di altre occasioni, nello scenario che va delineandosi per la corsa alla segreteria nazionale, non ho ancora scelto chi appoggiare. Prima dei nomi vengono i contenuti e i comportamenti. Ad uno che intende bucare il video o lamentarsi perennemente, preferisco persone che si impegnino silenziosamente ma efficacemente. Faccio l’operaio da ormai più di 30 anni e ho imparato che, parafrasando Gramsci: “la Politica non sempre è  solo forza, ma è anche autorevolezza e l’autorevolezza dei senza potere si chiama intelligenza”.  Vi è distinzione fra direzione – egemonia intellettuale e morale – e dominio – esercizio della forza repressiva: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente». Mi adopererò, nel mio piccolo, per promuovere una nuova classe dirigente che lo sia a prescindere, che abbia la forza delle idee e sia in grado di illuminare e indicare un sentiero. Questo è il mio Partito.

Quel 19 luglio persi l’innocenza

Mi ricordo come fosse ieri. Io Marco, Stefano e Ciro ormai pronti per varcare ancora l’Oceano: destinazione Santo Domingo. I preparativi erano agli sgoccioli, ormai completamente inebriati dall’ansia del viaggio, dalla paura del volo… I Passaporti pronti e timbrati, le macchine fotografiche in valigia, così come la telecamera e un paio di libri di quelli che piacciono a me,  felicemente malinconici. Tutto nasceva dal fatto che pensavo a lei e ancora continuavo a farlo, così che quei libri assieme ad una sua foto mi avrebbero dato la forza per affrontare il viaggio e il mondo. Un blando ritorno di fiamma, ma allora, ventun’anni fa sembrava farmi tornare a vibrazioni e cuore in gola. La notizia arrivò inaspettata, come quando ti guardi allo specchio e  vedi spegnersi il tuo sorriso. In Sicilia c’ ero stato in maggio di quell’anno, il 1992, ed eravamo a poche decine di chilometri da Capaci, insieme alla mia famiglia e ad amici nell’isola di Favignana. In quel frangente mi mancò la terra sotto ai piedi, abbracciai mio padre, ricordo la televisione che passava la finale di coppa dei Campioni tra Barcellona e Sampdoria, ma nonostante mi mancasse il fiato, mi sentivo protetto dall’affetto famigliare. Ma quel 19 luglio persi l’innocenza. Da solo, di fronte all’amore perduto e davanti a me solo  il viaggio…dietro di me lasciai un’Italia in ginocchio, spaesata come un cucciolo a cui hanno sparato alla mamma. Hanno ammazzato Borsellino! I tentacoli arrivarono ancora ad ammaliare dopo 57 giorni. Giovanni e Paolo. Paolo e Giovanni. Forse  quel giorno mi spogliai dai vestiti della giovinezza per indossare quelli duri della realtà.  Joseph Conrad nel suo libro “la linea d’ombra” descrive molto bene il passaggio dalla giovinezza all’età matura che non per tutti si identifica in una determinata età anagrafica. La mia linea d’ombra arrivò quel 19 luglio, in quel tritolo in via D’Amelio non morì solamente uno dei più grandi magistrati antimafia, si sgretolò la mia fanciullezza. 

Guidaci ancora, Madiba!

Se non fosse per la saggezza, l’integrità, l’intelligenza e il fulgido esempio che ci hai lasciato in eredità, noi, ti lasceremmo andare. Smetteremmo di stringerti la mano, smetteremmo di accarezzarti la fronte madida di sudore. Eppure sì, il tuo lungo cammino compiuto fino ai giorni nostri, vorremmo venisse prorogato ancora. Madiba! Il tuo nome pronunciato nel vento col rispetto dovuto fin dai primi tempi dal tuo clan, gli Xhosa, popolo fiero e patrilineo, con una lingua armonica ed espressiva e una radicata credenza nell’importanza delle leggi, nell’istruzione e nella cortesia. Ogni Xhosa appartiene ad un clan che fa risalire le sue origini a uno specifico antenato. Tu eri e sei un membro del clan Madiba, così chiamato dal nome di un capo Thembu che governò nel Transkei nel diciottesimo secolo. Ma il tuo vero nome conferitoti da tuo padre alla nascita è quello di Rolihlahla, che in Xhosa significa letteralmente “che tira il ramo di un albero”. Nelson viene dopo, il nome inglese, o cristiano più conosciuto ti verrà attribuito il primo giorno di scuola. Lontano quel 18 luglio 1918 quando vedesti la luce, vicino ormai questo del 2013. In tutto il Sudafrica, da Città del Capo a Soweto, da Johannesburg ai tuoi luoghi dell’infanzia, Mvezo, un minuscolo villaggio sulle rive del fiume Mbashe nel distretto di Umtata, la capitale del Transkei, fervono i preparativi per festeggiare i tuoi 95 anni. Sappiamo che la vita è un ciclo e che anche i miti in terra non possiamo trattenerli con la forza. Ma per te caro Madiba, faremmo volentieri uno strappo alla regola, uno scherzo al padre eterno. Vittorio Gassman diceva che la morte è un errore del padre eterno, forse non si sbagliava. I tuoi lunghi 27 anni di detenzione a Robben Island, dagli anni bui alla speranza, dal dialogo con il nemico alla libertà. La parabola di vita della nascita di un combattente per la libertà, dall’essere considerato la primula nera alla presidenza del Sudafrica dopo aver combattuto e vinto la lotta all’Apartheid. Leggendo e seguendo l’esistenza di quest’uomo, seduce l’incanto del racconto, la freschezza e l’icastica precisione della memoria e costituisce una splendida via maestra alla conoscenza di un vasto quadro storico e politico, ma soprattutto una chiave alla comprensione di una cultura africana il cui valore primo e irrinunciabile è la dignità dell’essere umano. Un valore per il quale Nelson Mandela la primula nera della resistenza all’oppressione razzista, ha affrontato lunghi anni di prigione uscendone con il prestigio di un eroe leggendario, per guidare il nuovo Sudafrica. Il lungo cammino verso la libertà di Mandela è il lungo cammino del popolo nero verso la libertà politica. Auguri Madiba! Lunga vita a chi ha dimostrato di essere “il capitano della propria anima e il padrone del proprio destino”.

Lunga è la notte

Nella storia delle lotte sociali contro la mafia Giuseppe Impastato, nato a Cinisi (PA) il 5 gennaio 1948 e ucciso il 9 maggio 1978, rappresenta un caso unico. Nato da una famiglia mafiosa, ha avviato fin da ragazzo un’attività politico-culturale contro la mafia, rompendo con il padre e la parentela e ha pagato con la vita la radicalità del suo impegno. I responsabili dell’omicidio, camuffato da atto di terrorismo,  furono subito denunciati dalla madre Felicia e dal fratello Giovanni, dai compagni di militanza e dal Centro siciliano di documentazione, nato nel 1977 e successivamente intitolato a Impastato. A causa del depistaggio, operato da rappresentanti delle forze dell’ordine e della magistratura, solo recentemente i mandanti del delitto sono stati puniti. Il 5 marzo 2001 Vito Palazzolo è stato condannato a trent’anni di reclusione e l’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti è stato condannato all’ergastolo. Nel dicembre del 2000 la Commissione parlamentare antimafia ha approvato una relazione sul ruolo di rappresentanti delle istituzioni nel depistaggio delle indagini. Nell’agosto del 2006 in vacanza in Sicilia con la mia famiglia andammo in visita alla casa natale di Peppino Impastato a Cinisi, oggi Casa della Memoria, dopo la suddetta visita andammo a trovare e conoscere il fratello di Peppino, Giovanni. Persona con principi saldi. Si instaurò immediatamente empatia, ci confrontammo su alcuni passaggi di vicende che a lui hanno cambiato l’esistenza, ma che al contempo hanno segnato un ulteriore periodo drammatico della storia della Sicilia e dell’Italia intera. Peppino viene ucciso il 9 maggio 1978 e non casualmente, è infatti lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro dopo il rapimento e l’uccisione della scorta avvenuto il 16 marzo dello stesso anno. Giusto per confondere ulteriormente le acque. Lunga è la notte è il titolo di una poesia scritta da Peppino, forse in un momento di scoramento, ma che mette a fuoco in maniera lucida la sua esistenza:

“Lunga  è la notte e senza tempo.

Il cielo gonfio di pioggia non consente agli occhi di vedere le stelle.

Non sarà il gelido vento a riportare la luce,

né il canto del gallo né il pianto di un bimbo.

Troppo lunga è la notte, senza tempo,

infinita.”

La Bamba

La cocaina in questo istante la sta utilizzando chi si siede accanto a te alla fermata dell’autobus, oppure l’autista che lo sta guidando, perché ha una caterva di ore da fare e non vuole rimanere bloccato con il rachide cervicale. Fanno uso di coca le persone a noi più vicine, magari i tuoi genitori, altrimenti tua sorella, tuo figlio, il tuo capo officina o il tuo capo ufficio, il netturbino che raccoglie la differenziata, per combattere la depressione, o la segretaria, solo nei fine settimana per distrarsi. Consuma cocaina il camionista che diversamente non reggerebbe a tutte le ore sul suo Tir, o il chirurgo che opera e ti viene a rassicurare sulla riuscita dell’intervento, o l’infermiera a cui così facendo sembra tutto più leggiadro, anche le notti. Fa uso di coca il vigile urbano che ti ha appena fatto una multa, ma che ti ha colpito non per l’importo eccessivo della contravvenzione, ma per il suo comportamento ipercinetico e il suo sudore eccessivo per essere febbraio. Si tira di coca per i motivi più disparati; per combattere la noia, per sentirsi più giovani, per non vedere la miseria di vita che si sta conducendo, per dimagrire, per sentirsi all’altezza della situazione, per non avere la consapevolezza si essere fuori dal giro giusto, per combattere la depressione, per essere fichi e sempre vigili, per avere tutto sotto controllo.
La cocaina non è l’eroina che ti rende uno straccio, uno zombie. Non è la canna che ti rilassa e ti stimola l’appetito. La coca è la droga delle performance, con essa puoi fare quello che vuoi, ti senti il più forte al mondo. Prima che ti faccia scoppiare il cuore, prima che il cervello diventi marmellata, prima che l’uccello ti si afflosci forever, prima che lo stomaco si pieghi a metà, insomma prima che il decadimento fisico  ti colpisca; sgobberai di più, ti divertirai di più, scoperai di più. La coca è la risposta più immediata per la società in cui viviamo, la totale mancanza di un tetto al limite. Con la coca ti senti immortale. Sarai in grado di affrontare le situazioni più disparate, sempre in anticipo sugli altri e più attento, più attivo e sarai più comunicativo e più comunichi più te la godi. Sempre qualcosa di più. Più. Sempre di più. Ma il nostro corpo non funziona con i “più”. A un certo punto il nostro corpo deve placarsi, deve tornare alle normali funzioni vitali. E proprio in questi istanti interviene la cocaina. Un lavoro di estrema precisione, si infiltra tra le cellule, nel punto esatto che le divide -la fessura sinaptica- è una struttura altamente specializzata che consente la comunicazione tra cellule del tessuto nervoso (neuroni) con le altre cellule muscolari, sensoriali o ghiandole endocrine. In quel momento il tempo è come se si congelasse e tutto risulta perfetto, la forza e la tranquillità convivono in te nel più totale equilibrio. Cade un oggetto? Tu lo senti prima degli altri. Sbatte la finestra? Tu te ne accorgi per primo. Pronunciano il tuo nome? Ti giri prima della fine del pronunciamento. Le risposte di paura-allarme sono iper accelerate, le reazioni immediate, senza filtro. Subentra la paranoia. La cocaina è il carburante del nostro corpo, è la vita moltiplicata per più vite. Prima di consumarti letteralmente e distruggerti. La vita in più che pensavi ti fosse stata donata, la pagherai con interessi da usuraio. Forse dopo. Ma tanto il dopo non conta nulla. Quel che conta veramente in questo tipo di società, è qui, ora.

Uno dei sette martiri di Piazza Garibaldi 1 settembre 1944

60 Anni fa

mio nonno Eleuterio Massari

Giacevano sul selciato

di fronte al cimitero

sette corpi,

sette storie,

sette vite rovinate

sette uomini deformi,

devastati, seviziati.

Era l’alba di Settembre,

nera e livida,

come la mano del fascista,

al servizio del nazista.

Tanto tempo è poi trascorso,

60 anni in questo giorno,

le ginocchia del mio nonno

non mi videro un secondo.

Questo giorno tutti gli anni

è un pugnale nelle carni,

questo scempio mai si dimenticherà.

Solo un grido: LIBERTA’.

1 Settembre 2004