Non per i tuoi occhi

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Al risveglio non ti ritrovai
in nessun angolo remoto,
dove un bimbo cerca
il suo tesoro.

La presenza dell’assenza
è una spina nel fianco
di ogni giorno che si annuncia.

Il sorriso di una stella
la carezza del mattino
la gioia del saperti.

Quanto t’amo mai lo saprai
e nell’angoscia t’amero’
in tutte le altre anime.

Varchero’ strade sature di vita
cercherò il tuo sguardo
che mai più poserai su di me.

L’assenza

Su questo tronco tagliato a metà, dove respiro i ricordi della mia infanzia, la mente svolazza. L’odore forte di legna bagnata, lo scorrere veloce dell’acqua, accompagnato dalle urla gioiose di bimbi in lontananza. È passato tanto tempo ma continuo a sentire il tuo buon profumo di bucato fresco che mi ricordano tanto le tue stagioni di salute e giovinezza. E anche quando sono morto dentro, penso alla tua lealtà, all’estrema facilità con cui dal nulla ideavi e costruivi con arte un opera di legno. Ora leggo i tuoi occhi turchini e il tuo sorriso in tua figlia, che ha calmato il mio mare in tempesta. Il solo fatto che anche  tu avessi visto come me all’infinito: “C’era una volta in America”, mi strazia l’anima, ma ne cullo gelosamente l’immagine. Nelle mattine nebbiose, come i pomeriggi assolati, continuo a vivere l’assenza della tua discreta e sincera presenza.

Amici sempre

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Questa storia nasce tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 a Parma, nel popolare quartiere Giovanardi, al numero 85 di via Edoardo Jenner, nome del grande scienziato che ebbe l’illuminazione di scoprire il vaccino contro il vaiolo.   Ci dividevano quattro rampe di scale e dieci mesi uno dall’altro, ci univa la voglia di vedere e scoprire il mondo. Ognuno con i propri mezzi e la propria fantasia. Tutti figli di operai o al massimo impiegati o commercianti nel Bronx parmigiano. Giochi fatti e ore trascorse per lo più in strada, la nostra palestra di vita. La  timidezza e la ritrosia hanno spesso limitato il mio raggio d’azione, ma in quel quartiere, dove la perdizione della droga ha falcidiato un’intera generazione e l’80% dei miei amici d’infanzia mi guarda dal cielo, sono stati forse il mio esercito della salvezza. Marco invece no, è l’esuberanza materializzata, lui deve toccare con mano, occorre vivere appieno le emozioni, occorre calarsi fin dentro, anche dove c’è il buco nero per cercarvi una luce. I giochi fatti con il fango a costruirsi le radiotrasmittenti, il gerlo segando e limando pezzi di legno, la capanna edificata dove finiva la strada, e poi ore e ore a giocare a pallone. Poi l’età dell’adolescenza, io con il mio lavoro cominciato troppo presto e lo sport, che assieme alla famiglia mi hanno distratto e protetto dalla polvere bianca, quella maledetta. Lo sguardo lo incrociammo una sera d’estate nelle scale, era quello perso e volutamente basso, l’affetto era immutato, ma mi sembrava un’anguilla, era sfuggente e frettoloso. Una fretta che durò otto lunghi anni. Il suo primo buco, Marco se lo fece all’età di tredici anni, un brivido mi percorre lungo la schiena: è l’età di mia figlia oggi. Poi seguirono alti e bassi dovuti alla tossicodipendenza. Ma poi arrivò una ragazza, la donna della sua vita e noi tutti, assieme allo sforzo enorme della famiglia, lo accompagnammo nella sua scelta di entrare in comunità. Provvidenziale. Per otto mesi potevamo scriverci una lettera al mese e lui aveva il permesso di relazionare solamente con amicizie “positive” come venivano definite dallo staff. Purtroppo, positivo, una parola che ritorna, ma non sempre tiene fede al significato etimologico della parola. Diciotto mesi, quanto è durata la disintossicazione, quella fisica un mese, patendo le pene dell’inferno, il resto per trovare un equilibrio psicologico, che nella realtà lui non ha mai perso. La decisione di uscire da quel giro: la paura ormai vicina del carcere, l’amore per la sua donna e la famiglia e un pezzettino per me, almeno così mi piace pensare. Era la fine dei famosi anni ’80, l’edonismo e il consumismo avevano compiuto passi enormi nella nostra società, l’effimero era l’obiettivo principe. Ma noi dovevamo tornare invece alla vita e possibilmente farlo insieme. La nostra era un’amicizia nata nella polvere del campetto dietro casa,  si nutriva di polvere di stelle, fatta spesso di sguardi, di gesti ma anche di silenzi.  E  dalla polvere, quella  maledetta, si era affrancato con le sue forze. Mi tenne nascosto a lungo la sua malattia, non per paura che io mi allontanassi, ma per non farmi soffrire inutilmente. Lo vedevo dimagrire sotto ai miei occhi e certi drammi, erano i primi anni ’90, si conoscevano ormai bene purtroppo, ma il mio trasporto non mi consentiva di vedere la dura realtà. Di ritorno da una giornata trascorsa al mare in compagnia, fece in modo che io mi trovassi solo assieme a lui in casa sua. Ci appoggiammo sul davanzale e osservammo quei luoghi famigliari, dove nelle sere d’estate, ascoltando la musica delle cicale, giocavamo a nascondino tra l’erba medica. Mi disse: “vedi, io la vita l’ho vissuta ai 200 all’ora, ho amato, giocato, sperimentato e alla fine sono rinsavito grazie soprattutto a te, amico mio, ma la vita stessa mi ha presentato il conto, forse un po’ salato, ma accetto la sentenza”. Le gambe mi cedettero, le forze si affievolirono, l’unica cosa che riuscii a mettere in pratica fu l’aggrapparmi alle sue braccia ed emettere un flebile: e adesso? Adesso  disse lui, non fare il patetico e venire qui ogni giorno. Sono ammalato ma non invalido. Gli occhi rossi tradivano il dolore, ma ebbe una forza fuori dal comune. Misi tutte le energie che fui in grado di raccogliere e finimmo con l’abbracciarci a lungo. Era l’inizio di un calvario. Ma io tenni fede all’impegno, ci sentivamo con molta frequenza, ma c’erano giorni che non passavo né ci sentivamo, una vera violenza. Poi un giorno andammo a pescare in un laghetto di montagna, ci divertimmo profondamente, lui un pescatore provetto, io nemmeno della domenica, ma del lunedì. Lui i pesci li pescava, ma li lasciava immediatamente: il “ciapa e mola”. Alla sera per tornare alla macchina, dovevamo camminare a ritroso sui nostri passi del mattino, ma occorreva fare uno strappetto in salita che poche ore prima era discesa. Io con tutta l’attrezzatura da pesca, lui con solo la canna. Vedo che arranca e amorevolmente, ma pacatamente lo accompagno: dovevo fare così altrimenti si sarebbe “incazzato”. Ad un certo punto si gira con gli occhi lucidi e mi dice: “non ce la faccio”. Ed io dico cosa sono qui a fare? Appoggiai tutto l’armamentario e lo presi in groppa raccontandogli di quando da bambino mio padre faceva lo stesso con me. Ma io ho 26 anni mi disse ed io ne uno più di te, zitto e sappi che da oggi non ti lascerò più solo nemmeno un giorno. Ci liberammo del macigno della malattia e degli eventuali tabù. Un giorno mi chiese, dandomi quasi un ordine:” vai fuori con gli altri amici e amiche, io stasera esco solo con M.” “Ci mancherebbe!” pensai. Andai al cinema con altri amici e fidanzata. “Balla coi lupi”, il film. Si accendono le luci dell’intervallo, mi guardo in giro e vedo Marco e Lei, ampi gesti eloquenti di saluto. Ricomincia il film, scena finale: il capo indiano Sioux da un roccione saluta il protagonista del film, Kevin Kostner ufficiale dell’esercito americano yankee, arrestato per alto tradimento per essere passato dalla parte degli indiani. Scena ad alto contenuto emotivo. Dall’alto questo maestoso uomo indiano lancia strali verso l’esercito e urla all’amico americano: “lo sai che in qualunque strada ti troverai resteremo sempre amici? Sempre. Da qualsiasi parte ci troveremo. Resteremo sempre amici”. Eravamo nella parte alta della platea, mentre Marco e M. erano più vicini allo schermo. Inevitabilmente lo sguardo cadde là e nel medesimo tempo noto un po’ di trambusto, qualche lamento, un rimbrotto. Nella penombra vedo l’ormai esile figura di Marco in piedi,  con le spalle girate al film e rivolto nella nostra direzione, nella mia direzione. Un colpo al cuore. Mi alzo di scatto, qualcuno dietro di me mi rimprovera sul fatto che il film non sia ancora finito, ma non lo sento nemmeno. Gli occhi prima umidi, ora sono un fiume in piena. Gli amici chiedono, ma non sento nessuno, vedo solo Marco che  tributa il suo amore e la sua amicizia nei miei confronti. Cerco quasi di allungare le mani, ma è un movimento impercettibile, il pudore mi frena. Poi lascio ogni freno inibitore e urlo: “Sempre amici per sempre!” Parte un piccolo applauso irriverente, ma qualcuno intuisce qualcosa e rispetta silenziosamente se non altro le mie lacrime. Fuori dal cinema un lungo abbraccio. Per sempre. Ma una vera storia di amicizia non può finire senza un lascito, un testamento d’affetto. Amicizie trasversali hanno fatto in modo che Marco conoscesse prima di me una cara persona. Un giorno mi disse: “ho conosciuto un’amica di M., sensibile, intelligente e carina, sembra fatta apposta per te. “ Concluse con un: “Second mi l’at pies”. Mi conosceva? Quattro anni dopo quelle parole, sposai quella ragazza. Convolammo a giuste nozze a Viarolo, il suo paese, nella chiesa di San Giorgio. Mi ha dato due figli che adoro e sono profondamente innamorato di lei: è la mia vita. Marco mi lascerà solo davanti al davanzale della nostra infanzia il 1 maggio del 1994, festa dei lavoratori. Lo stesso giorno di Airton Senna e scherzo del destino, avevano tre grandi qualità in comune: il coraggio, l’intelligenza e la sensibilità. In quel letto di ospedale ho lasciato gran parte della mia giovinezza, della mia spensieratezza. Ho lasciato un amico vero, che non ha mai chiesto nulla, ma che non disdegnava la mia presenza ed io la sua. Beh, diciamola tutta, ho assaporato fino in fondo il gusto dell’amicizia, quella senza nessun secondo fine, quella che ti da tutto e non chiede nulla in cambio. Sono passati ormai quasi vent’anni, ma ci penso tutti i giorni, per pudore non ne parlo, ma lui è qui con me e ride vedendomi piangere. Quando sono in grande difficoltà abbraccio il mio Amore, che capisce tutto subito ed è un po’ abbracciare anche Marco. Le sue ultime parole? “Nico vieni vicino senti che bel rumore” Poi la sua mano che stringeva la mia si è allentata. Il medico ci ha spiegato che era entrato in una fase di pre-coma. Non avrebbe più sofferto. Spesso ritorno nei nostri luoghi al tramonto, quando, nelle giornate lunghe, i riflessi rossi si infrangono nella nostra aiuola e mi sembra ancora di vederlo costruirsi l’arco con le frecce, o palleggiare con in mano il suo bel panino con la nutella. Salgo le quattro rampe di scale, abbraccio i suoi genitori, respiro l’aria di quelle stanze, guardo le foto insieme e torno in pace con noi stessi.

Noi sempre amici. Sempre.